C’è molto discutere su quelli che Andrés Rodrìguez Pose definisce “luoghi che non contano”, gli spazi abbandonati dalla politica, quelle porzioni di territorio che hanno visto rarefarsi i servizi fino a ridurre sostanzialmente i diritti dei cittadini. Luoghi che esprimono il loro disagio quasi sempre in una forma rabbiosa e distruttiva.
L’insicurezza muove dalle aree più remote e si allunga verso il centro, nelle cinture metropolitane, dove si trasforma in paura e diventa egemone in campo politico. Ma non è solo il voto di rabbia ad assediare il centro. Alcuni segnali positivi fanno pensare che ci stiamo avvicinando ad un punto di svolta; al passaggio da una fase caratterizzata della protesta nichilista dei cittadini atomizzati a una nuova, nella quale cresce l’urgenza di costruire una proposta organizzata per il futuro del paese.
Manifesti dal futuro
Proprio in questi giorni, sulla mia scrivania, si ammucchiano una gran quantità di “manifesti”, quasi tutti in lavorazione, che danno la percezione di quanto i margini del nostro paese siano in movimento, e di come provino, rivolgendosi ad un pubblico vasto, a farsi proposta di cambiamento.
Dichiarazioni pubbliche che espongono principi e definiscono obiettivi, pragmatici o utopici, ancor oggi in maniera frammentata, nel tentativo di dare risposta alla “crisi italiana”, percepita sempre meno come una variabile specifica della crisi internazionale, e sempre più come declino storico di un modello di sviluppo.
Manifesti che rivendicano una nuova centralità della montagna nel costruire un “green new deal”, e propongono nuovi paradigmi economici, nuove forme di organizzazione sociale, che scendendo dalle valli più lontane possano irradiare il resto del nostro paese.
Altri che denunciano la gravità del trend demografico del nostro paese, e che interrogano il sistema sul “che fare” per ripopolarlo, altri ancora che si concentrano sulla “periferizzazione” della provincia italiana nel tessuto produttivo e propongono di rimettere al centro la rete delle medie città, vera spina dorsale del paese. O, ancora, Carte che ipotizzano come la vera rivoluzione possa risalire dal sud attraverso il recupero di un modello mediterraneo di innovazione, o che possa provenire da una rigenerazione culturale e sociale degli spazi dismessi e dei luoghi interstiziali, finalmente promossa a politica organica.
Tratto comune è parlare al futuro, porre al centro le relazioni delle comunità con la diversità del territori0 e un’ambiziosa concezione di cultura
Provengono prevalentemente da ambiti culturali a cavallo fra la teoria e l’attivismo civico, e dal quel variegato mondo della ricerca multidisciplinare, accademica a non, fortemente radicata in specifici territori, che spesso si rivolge direttamente alle politiche. Non ancora un clamore, ma piuttosto un mormorio, un qualcosa che prende forma.
Tratto comune a tutti questi manifesti è di parlare al futuro, porre al centro della rinascita le persone, le relazioni delle comunità con la ricchezza e diversità territoriale degli ambienti, e una inedita, ambiziosa, concezione di cultura, pensata come capace di generare un nuovo ed originale progetto per il nostro paese.
Ne ho il tavolo pieno perché guardare come cambia il paese a partire dai suoi margini geografici, dalle aree che perdono popolazione, cercare di cogliere le dinamiche che lo attraversano e trovare una maniera per assecondarle e rimuovere gli ostacoli al loro dispiegarsi, è stato il mio lavoro negli ultimi anni.
Nel loro essere “aree morte abbastanza per poter rinascere”, assomigliano paradossalmente ai vuoti distopici nei centri delle città deindustrializzate degli USA, che l’urbanista Alessandro Coppola ci descrive come spazi unici dove i community makers possono sperimentare nuove relazioni di comunità, ad oggi l’unico antidoto conosciuto allo spopolamento, prima, e forse all’estinzione, poi. Ed in effetti uno degli effetti della crescita delle disuguaglianze sociali e territoriali è che la riduzione dei servizi di prossimità pubblici, e l’allontanamento dei luoghi di studio e di lavoro si insinuano nelle aree urbane di tutta Europa. Non è un caso che il programma elettorale di Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, gira intorno alla proposta “le Paris du ¼ d’heure”, ossia di rendere tutto accessibile da casa in un quarto d’ora, servizi, amenities, lavoro, per tutti gli abitanti della città.
Il nostro è sempre, nel discorso pubblico, un paese in qualche maniera “mancato”, con un’economia e una società feudale o semiformale, storicamente e strutturalmente “in ritardo”, mentre rispetto a cosa sia in ritardo, è meno chiaro e le opinioni, quando ci sono, sono discordanti. Lo storico John Foot, nel suo ultimo libro sull’Italia, e prima di lui David Forgacs, ci sollecitano a superare questo approccio. Ci suggeriscono di guardare ai margini geografici e sociali del nostro paese, le aree più lontane, le paranoiche periferie metropolitane del nord, il sud, i gruppi dello svantaggio sociale intersezionale, le famiglie deboli e gli stranieri, come i laboratori della contemporaneità. Io sono andato a guardare nelle aree interne.
La rigenerazione urbana nelle aree interne
In buona parte dei settantadue territori sui quali ha lavorato, la Strategia Nazionale per le Aree Interne ha incontrato soggetti collettivi che pongono al centro del loro agire sociale la rigenerazione di spazi, che in molti casi si estendono al di fuori di edifici, si allungano nel tempo e si allargano sul territorio. Si tratta di scuole, di hub culturali, biblioteche, residenze per artisti, festival, ma anche di reti di imprese, comunità di apprendimento e mutualistiche, o spesso di vere e proprie infrastrutture capaci di offrire servizi socioculturali in grado di generare valore e lavoro.
Uno degli effetti della crescita delle disuguaglianze sociali e territoriali è la riduzione dei servizi di prossimità pubblici
Sono organizzazioni che si innestano spesso su esperienze di terzo settore precedenti, ma anche associazioni 4.0, reti informali più o meno strutturate di attività imprenditoriali. O sono anche le stesse istituzioni locali che, insieme ai cittadini, nei luoghi in cui l’amministrazione centrale non è in grado di arrivare a fornire i servizi essenziali, riescono ad organizzare servizi alla persona e alla comunità in forme del tutto originali. Li dove invece i ricercatori non hanno incontrato forme organizzate di cittadinanza, è stata la stessa SNAI a farsene promotrice, attraverso la costituzione di laboratori di coprogettazione, nei quali i progetti di vita dei singoli innovatori, o le strategie di sopravvivenza dei più, le mission delle associazioni locali e le funzioni di governo del territorio si sono amalgamate fino a diventare progetto condiviso.
Questa esperienza si è concretizzata, all’interno di molte strategie, in interventi per la rigenerazione materiale di spazi abbandonati, come strutture militari, vecchie fabbriche, frantoi in abbandono, ma anche piazze, mercati, boschi, perché possano divenire simbolo fisico dell’aspirazione di questi soggetti collettivi a trasformarsi a qualcosa di molto simile alla “polis parallela” di cui parlava Vaclav Benda, non una comunità separata che “vive nella verità”, ma aperta al cambiamento e capace di accettare che gli esiti di questa operazione non siano predefiniti.
Delle vere e proprie “cucine”, luoghi dove gli ingredienti che abbiamo incontrato sui territori e che hanno cominciato a collaborare per agire spazi inagibili, continuino a tentare nuove ricette, a generare prospettive. La Snai li ha aiutate a crescere dal punto di vista delle competenze, dell’attivismo civico, e molte di queste oggi si sentono pronte a trasformarsi in qualcos’altro, e ad assumersi responsabilità in quello spazio vuoto che ha lasciato la politica e il pensiero, come corpi intermedi tra cittadini e politica.
Da pulviscolo a sistema: come da cucine si diventa nuovi centri culturali
Motore di queste “cucine” sono gli innovatori culturali, che parlano di desideri, di produzione e formazione, e rompono la trappola dei bisogni che sembra soffocare le speranze di chi non abita l’economia dei flussi. Sono tutti uniti dall’idea che la cultura sia un diritto di cittadinanza, e che come tale non debba avere alcuna barriera d’accesso, neanche economica. Non mostrano nostalgia per il passato, e anzi qualche volta la marginalità rispetto ai centri dell’economia globale è vissuta come uno spazio di libertà da colonizzare, un’occasione da cogliere.
I manifesti con i quali queste comunità culturali territoriali si presentano in arene più grandi testimoniano il tentativo di trasformarsi da pulviscolo a sistema, da laboratori isolati a centri di irradiazione culturale, in grado di dialogare col mondo. Di fronte a queste ambizioni, è evidente che pensare solo di rimessa al settore pubblico non è più sostenibile.
Esiste un orizzonte politico che non può prescindere dalla legittimazione del ruolo e delle funzioni che svolgono questi centri
Prendere coscienza che le istituzioni sono spesso incapaci, o impossibilitate, a dare risposte, significa comprendere che esiste uno spazio di negoziazione nelle relazioni con la PA, sul quale si può lavorare da subito, con interventi puntuali, legati all’erogazione dei fondi pubblici e all’alienazione degli spazi. Ripensare gli strumenti tecnici esistenti per facilitare l’accesso ai beni comuni, mettere a punto nuove forme di evidenza pubblica che possa premiare chi sa dare nuovo valore d’uso ai luoghi, ridefinire il concetto sostenibilità, misurandola sugli obiettivi, individuati in maniera condivisa.
E ancora mantenere la modularietà degli interventi, perché siano più attenti al contesto, immaginare nuove clausole di salvaguardia sociale per tutelare il lavoro culturale, pretendere tempi certi. Sono solo alcuni degli ambiti di azione “sindacale” che queste nuove reti di soggetti della rigenerazione urbana possono percorrere.
Esiste poi un orizzonte politico, che non può prescindere dalla legittimazione, dal riconoscimento del ruolo e delle funzioni che svolgono questi centri, cioè quelli di immaginare, rigenerare, formare, essere laboratori di una nuova economia, erogare servizi.
Perchè la rigenerazione possa diventare una vera politica pubblica c’è bisogno di far crescere il consenso intorno alla necessità di investire sulla capacità locale di autorganizzazione. Bisogna nello stesso tempo combattere ogni forma di centralismo in ambito socioculturale, lavorare per superare l’approccio paternalistico del settore privato e quello settoriale di una amministrazione pubblica che sembra incapace di riformarsi da sola, andare oltre la valutazione basata solo sull’analisi costi benefici. Tutte cose che non avverranno se non sostenute da una forte spinta dal basso, organizzata.
Un orizzonte radicale, pragmatico e, nei suoi principi, non negoziabile. La scommessa è che questi nuovi centri possano contribuire al rinnovamento di quella infrastrutturazione culturale del territorio di cui il nostro paese ha urgente bisogno. Senza dimenticare che è proprio risalendo le istituzioni dai margini che sono state realizzate alcune delle riforme più importanti della nostra storia recente, dalla legge Basaglia, all’istituzione dei consultori familiari, che hanno esteso i diritti di cittadinanza a nuove fasce di popolazione. La cultura diverrà diritto di cittadinanza quando si tornerà a considerare il welfare come un investimento, e si smetterà di guardare al territorio come una spesa improduttiva.
L’articolo originale è uscito su cheFare il 17 febbraio 2020 ed è visibile qui