Cosa significa parlare di cultura per la sostenibilità?

I nuovi Centri Culturali nel contrasto alle diseguaglianze. Un percorso di riflessione promosso dall’agenzia di trasformazione culturale cheFare

Farm Cultural Park – Favara

Ci viene raccontato, semplificando, che esiste una economia dominante, verticale, che partendo da poli ad alta intensità di capitali e conoscenza arriva fino al singolo produttore/consumatore isolato, estrema periferia del sistema, e che esiste una società che ad essa si conforma. Ma che esiste anche un’altra economia, più sfuggente nelle sue forme perché orizzontale, che si costruisce a partire dalle scintille che nascono da relazioni inedite fra soggetti, e fra soggetti e materiali. E, infine, partiamo dal presupposto che ogni relazione inedita è, nella sua forma primordiale e per sua natura, culturale.

In uno scenario di questo genere, l’innovazione può discendere dall’alto, attraverso le grandi reti infrastrutturali che innervano il mondo, ad esempio a partire dai grandi monopoli dell’economia digitale, o dalle città globali, prendendo le forme materiali del nostro quotidiano, il computer, lo smartphone, nuovi strumenti di una catena di montaggio universale che all’apparenza è in grado di annullare le distanze spaziali, oppure risalire dal territori, facendo saltare i rapporti gerarchici impliciti in tutte le dicotomie, come città/campagna, uomo/donna, bianco/nero.

Guardare l’innovazione come un processo sostanzialmente culturale e immateriale, che ha a che vedere soprattutto con il gradiente relazionale delle attività umane, è idea da cui ha preso le mosse  il percorso alla scoperta dei “nuovi Centri Culturali” italiani sviluppato dall’agenzia di trasformazione culturale cheFare. Una attività che ne ha presto scoperto anche l’aspetto materiale; i manufatti, gli strumenti, i luoghi che queste relazioni configurano o ripensano per delle nuove funzioni.

LA MAPPATURA DEI NUOVI CENTRI CULTURALI

Il percorso che ha portato cheFare nel gennaio 2020 a lanciare la Call to Action, una mappatura dei nuovi Centri Culturali, che fino ad oggi ha raccolto 790 autosegnalazioni da tutta Italia, nasce da una riflessione di lungo corso che si è alimentata di esperienze su campo, come l’azione di “Rosetta”, un progetto nomade che ha attraversato 18 nuovi centri culturali milanesi, connettendo pubblici, luoghi e scene culturali diverse, e di contributi teorici raccolti nelle pubblicazioni “ La cultura in trasformazione” uscita per Minimum Fax nel 2015 e da “Bagliore. Sei scrittori raccontano i nuovi centri culturali”, Il Saggiatore, 2020.

Nella rete a maglie larghe della call to action sono caduti oggetti molto diversi, hub culturali, teatri, biblioteche, cinema, residenze per artisti, festival, esperimenti di agricoltura sociale, ma anche reti di imprese, comunità di apprendimento e mutualistiche, in molti casi vere e proprie infrastrutture capaci di offrire servizi socioculturali e in grado di generare valore e lavoro. Sono organizzazioni che si innestano spesso su esperienze precedenti, ma anche associazioni del tutto nuove, reti informali più o meno strutturate di attività culturali, sociali e imprenditoriali, che mettono al centro della loro azione i luoghi e le persone.

ALLA SCOPERTA DEI NUOVI CENTRI CULTURALI

Per conoscerli cheFare ha utilizzato uno strumento specifico, il progetto “La guida, il festival itinerante dei nuovi centri culturali”, e già dai primi passi ci si è resi conto di quanto l’ operazione di connettere questi soggetti fosse molto ambiziosa, e che c’era bisogno di sviluppare un pensiero di sistema.

Durante una gran quantità di incontri, costruiti con format differenti, di decine di tavole rotonde, di approfondimenti su aspetti specifici, ad esempio sulle modalità di finanziamento, e sulle relazioni istituzionali, parte dei quali in piena pandemia, “La guida” ha avuto modo di osservare nel suo dispiegarsi l’estrema versatilità dei nuovi Centri Culturali, e la loro capacità di connettere, in una fase di emergenza, le necessità delle persone e gli ambiti culturali, fino a trasformarsi, in alcuni casi, in piattaforme di partecipazione civica, rinsaldando i vincoli sociali sui territori basati sulla “cura” reciproca. Durante la crisi Coronavirus, infatti, in molte parti d’Italia decine di questi nuovi Centri sono diventati strutture operative solidali, che hanno lavorato a sostegno dei gruppi sociali più colpiti, non solo  in termini materiali – costituendo punti logistici per la raccolta e la distribuzione – ma anche supporto e sviluppo di progetti di cultura di prossimità. Questo è successo un po’ ovunque, nelle città, riuscendo a raggiungere anche grandi numeri di persone, nelle periferie e nelle aree interne del paese, dove prevale, come sempre, una dimensione più minuta e artigianale anche dell’agire culturale e sociale. La presa di coscienza che i nuovi Centri Culturali sono una delle novità più promettenti nel nostro paese, fragili e allo stesso tempo indispensabili, per agire nella marginalità, per trasformarla in nuova frontiera, ha reso centrale il tema del rapporto con le istituzioni.

UN’ALTRA IDEA DI CULTURA

Anche se la call è ancora in corso ed è presto per cercare di farne una tassonomia ragionata, tratto comune fra loro è l’agire una idea di cultura che si distacca da quella tradizionale e diviene immaginazione, visione di futuro, capacità di costruire nuovi spazi pubblici. I nuovi Centri Culturali denunciano, nelle loro stesse biografie, come il mercato sia uno spazio poco agibile per le sperimentazioni, perché tende all’omologazione e alla replicazione all’infinito di quei pochi modelli profittevoli e sperimentano, sulla propria pelle, quanto la spesa pubblica sia poco accessibile. Assecondano il cambiamento dei consumi culturali, sempre più spostati dalla fruizione alla produzione, inseguendone l’abbattimento dei costi. Tendono a divenire una comunità di pratiche che si fonda e produce conoscenza, perché si radica nei luoghi, e si ramifica avvalendosi di reti che arrivano lontano, camminando sulle gambe di una generazione molto mobile. Una generazione capace di consapevolezza e introspezione, e anche di equità di genere, impegnata nella sfida di conciliare sostenibilità ambientale e sociale. Infatti è proprio nei luoghi e nelle relazioni culturali che i nuovi Centri Culturali sanno riconoscere la propria nicchia ecologica, a partire dai soggetti deboli, dai territori marginalizzati, di cui spesso si sentono parte.  E per questo promuovono la cultura come diritto di cittadinanza, accessibile a tutti, attivano comunità e rigenerano spazi che hanno smarrito la loro ragione d’essere.

LE 11 RACCOMANDAZIONI

Punto di arrivo del percorso della prima tappa de laGuida – da giugno a ottobre 2020, è stata una prima lista di suggerimenti, raccolti in 11 Raccomandazioni utili a sviluppare delle politiche specifiche per i nuovi centri culturali. Oltre a rivendicare la necessità per l’immediato di misure di sostegno durante la crisi pandemica, e richiedere investimenti diretti sulla qualità e la circuitazione della produzione artistica e culturale, buona parte delle Raccomandazioni – che riguardano la formazione, la valorizzazione delle conoscenze, l’integrazione nelle reti esistenti dei poli culturali – sono riconducibili a strumenti già esistenti nel portafoglio delle politiche pubbliche. Il problema del passaggio da pratiche a politiche rimane però legato al mancato “riconoscimento” da parte delle istituzioni del ruolo e delle funzioni dei nuovi Centri Culturali; da certi punti di vista il quadro normativo non è attrezzato per identificare questi soggetti nuovi, perché in molti casi le esperienze dei nuovi Centri Culturali non sono riconducibili al “linguaggio” della pubblica amministrazione, ai codici ATECO, ad esempio, e talvolta non è sufficiente nemmeno la ragione sociale per farne dei soggetti beneficiari di una qualsiasi forma di intervento. In altri termini questa rete nevralgica composta da migliaia di esperienze, manca di una controparte istituzionale. Ma è alle stesse Istituzioni, però, che le 11 proposte stesse attribuiscono un ruolo di driver, chiamandole a costruire azioni integrate sui territori e di messa a sistema delle esperienze.

La principale sfida per un  dialogo con le istituzioni è indubbiamente quella di definire, senza cristallizzarlo, il profilo dei nuovi Centri Culturali. E d’altra parte serve una capacità d’apprendimento da parte delle pubbliche amministrazione, indispensabile in questa fase, che  sappia finalmente prendere distanza dalle procedure standard, e assecondare le dinamiche sul territorio con maggiore flessibilità e responsabilità. Si tratta, come dice l’ultima delle raccomandazioni, “di ampliare vocabolari teorici ed operativi comuni” tra nuovi Centri Culturali e istituzioni, di operare, in altri termini, una mediazione culturale fra due mondi che hanno bisogno l’uno dell’altro per crescere.

BIBLIOGRAFIA

La cultura in trasformazione. L’innovazione e i suoi processi (a cura di cheFare) Minimum Fax 2015

Bagliore. Sei scrittori raccontano i nuovi centri culturali, (a cura di cheFare), il Saggiatore, 2020

SITOGRAFIA

ABSTRACT

The so called “new Italian Cultural Centers, as identified and promoted by the cultural transformation agency cheFare, are the result of an innovation process that involves both material and immaterial aspects. In these centres, artifacts, tools, are places are shaped by these relationships or new functions. The problem of the transition from practices to policies, however, remains linked to the lack of “recognition” by the institutions of the role and functions of these new subjects. The main challenge for a dialogue with the institutions is undoubtedly to define, the profile of the new Cultural Centres, without without crystallising into a static concept. The public administration needs to learn how to distance itself from standard administrative procedures and find new ways to support the territorial dynamics fostered by these new centres, promoting greater flexibility and responsibility

articolo originale su AgCult qui

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