Tra il 1999 e il 2000, proprio mentre Margaret Tatcher inaugurava il Millenium Dome di Londra, l’enorme spazio espositivo che rappresenta l’ultimo sfarzo della sua epoca, tre amici, tra cui Iain Sinclair, scrittore e filmaker inglese, decidono di percorrere a piedi gli oltre 200 kilometri dell’ M25, l’anello autostradale a 10 corsie che cinge Londra, e documentare e interagire con tutto ciò che vedono. Il racconto di quest’odissea in 22 tappe darà vita a quello che oggi è un classico della letteratura metropolitana, London Orbital, recentemente tornato nelle librerie italiane per Il Saggiatore, un cammino lungo il quale si allineano, in una cupa atmosfera ciberpunk, grandi infrastrutture sociali in dismissione, scuole, ospedali, assediate da enormi centri commerciali, e quartieri abitati da ricchissimi speculatori di borsa, russi, arabi, che si alternano agli enormi vuoti dei campi da golf recintati, difesi da guardie di sicurezza private, fino agli edifici delle olimpiadi trasformati in alveari per i nuovi immigrati. E ancora vuoti, raffinerie e grandi fabbriche abbandonate, tra le quali oggi pascolano i cavalli dei Travellers irlandesi, i nomadi delle isole britanniche.
Negli ultimi anni l’incubo di questo melting pot metropolitano agita i sogni degli inglesi, oltre ad alimentare un ricchissimo filone letterario e di studi urbani. Ma, secondo la gran parte degli opinionisti, è stata soprattutto la paura di una crescita demografica tumultuosa, che stando alle previsioni potrebbe superare in portata la “rivoluzione demografica” seguita alla prima rivoluzione industriale, il motivo di fondo che ha determinato l’esito della campagna referendaria con la quale gli inglesi hanno deciso di abbandonare l’Unione europea. Secondo i dati dell’Office for National Statistic, rilanciati in Italia dal settimanale pagina99, infatti, la popolazione del Regno Unito dovrebbe crescere di circa 10 milioni di abitanti nei prossimi venti anni. Già oggi le scuole primarie e dell’infanzia del Regno Unito sono strapiene di bambini, le code per accedere ai servizi sanitari di base sono infinite, e le previsioni per il prossimo futuro vedono la situazione aggravarsi ulteriormente.
Il sistema del Welfare inglese, in poche parole, non riesce più a far fronte alle richieste di una popolazione in crescita. Il costo delle abitazioni è diventato così alto che tanto l’ex Primo ministro David Cameron che il capo dell’opposizione labourista, Jeremy Corbyn, hanno dato priorità nei loro programmi al rilancio del settore dell’edilizia pubblica. E proprio il tema del disagio abitativo è stato uno dei fattori che ha polarizzato il dibattito nelle ultime elezioni amministrative della capitale, e ha portato alla vittoria del nuovo sindaco Sadiq Khan che durante la sua campagna elettorale si era concentrato soprattutto sul problema del costo delle case e degli affitti.
È sufficiente allargare un po’ lo sguardo per accorgersi che sono molti i paesi europei in cui in questo inizio secolo si assiste al ritorno, nell’arena politica, del tema dell’allarme demografico. Un tema che ha una storia di lungo corso, ripercorsa da Scipione Guarracino nel suo libro Allarme demografico. Sovrappopolazione e spopolamento dal XVII al XXI secolo, uscito quest’anno per Il Saggiatore.
Da quando le scienze umane e sociali hanno cominciato ad accordare un’importanza crescente all’aumento della popolazione come tratto distintivo della modernità, l’allarme è passato attraverso varie fasi. Raccontato e poetizzato dagli scrittori di fine ottocento, dei flaneurs smarriti davanti alle folle anonime delle metropoli europee, poi legato politicamente al tema della scarsità di risorse, energetiche e alimentari, e alle guerre per accaparrarsene (e alla nascita di nuova disciplina, la geopolitica), o al rischio di pandemie devastanti, il tema “bomba demografica” è un incubo che torna ciclicamente ad animare le agende politiche delle organizzazioni internazionali e di molti paesi.
Ad esempio, determinando scelte politiche di paesi particolarmente “esposti”, basti pensare alla “rivoluzione verde” in India, alla “politica del figlio unico” in Cina (introdotta da Deng Xiao Ping nel 1979) e della sua recente abolizione. Ma anche degli effetti che ha avuto e continua avere in tempi recenti nell’immaginario collettivo, nella iperproduzione fantascientifica e distopica della letteratura e del cinema americano. Per una parte di mondo sembra avverarsi, a distanza di 200 anni, la previsione di Malthus, che nel suo Saggio sul principio di popolazione del 1798, sosteneva che la crescita demografica avrebbe reso irrealizzabile qualsiasi progetto duraturo di progresso sociale. Oggi, sul banco degli imputati non sono più solo le misere classi inurbate della prima rivoluzione industriale, o, in Italia della grande migrazione del dopoguerra, ma anche e soprattutto i nuovi migranti, che condividono con i vecchi il sospetto della degenerazione dei costumi e della minaccia di sovversione del sistema.
C’è un’altra parte di mondo, però, che la vede in maniera completamente diversa. Se nessuno mette in discussione il fatto che nel XX secolo si è assistito ad una crescita di popolazione senza precedenti nella storia, il rallentamento delle nascite degli ultimi anni dà adito a preoccupazioni di segno opposto.
Secondo il “World Population Prospects” per il 2015, lo studio delle tendenze demografiche globali realizzato ogni anno dalla Population Division del Department of Economic and Social Affairs dell’Onu, ci troviamo oggi sull’orlo di un “inverno demografico”: nei prossimi anni, per la prima volta dal dopoguerra, la forza lavoro complessiva delle economie avanzate diminuirà del 5% entro il 2050. La frenata riguarderà anche i paesi emergenti come la Cina e India in testa, dove l’inversione di tendenza è già cominciata. La popolazione in età lavorativa diminuirà del 26% in Corea del Sud, del 28% in Giappone, del 23% in Italia e Germania. E anche qui si levano accorati appelli sulla necessità di ricominciare a far figli, sul fatto che anche questo avrà delle ricadute apocalittiche sul Welfare, e che in particolare presto non saremo più in grado di garantire le pensioni e i costi sanitari della popolazione anziana dei paesi avanzati, o di ripagare il debito contratto con le generazioni future dopo anni di sviluppo fondato su una crescita di consumi a credito.
La mole di pubblicazioni, di dichiarazione allarmate di agenzie internazionali e degli uffici pubblici che si occupano di questi temi, dà la percezione di quanto ideologizzato sia l’argomento, e nello stesso tempo di quanto i suoi contorni siano sfuggenti. E per questo molti altri analisti, per tornare al referendum inglese, hanno messo in dubbio che determinarne l’esito fosse stata solo una paura per quanto rilanciata dai media, di un generico aumento della popolazione, e hanno posto soprattutto l’accento sugli squilibri territoriali causati dalle scelte economiche fatte proprio nell’”epoca Thatcher”. “Non si è trattato solo di Unione Europea – scrive John Harris sul The Guardian il 24 giugno guardando la mappa della distribuzione del voto – è una questione di classe, di diseguaglianza…la Brexit è soprattutto la conseguenza del patto economico stretto nei primi anni ottanta, con il quale abbiamo detto addio alle sicurezze del dopoguerra per ritrovarci con un modello economico che ha funzionato per le grandi città (che hanno votato per il Remain) e abbandonato il resto del paese al declino”.
Se si torna a guardare all’interno del Regno Unito, infatti, ci accorgiamo che la tanto temuta crescita riguarderà solo alcune aree del paese, mentre larghe zone della Scozia, del Galles, della stessa Britannia, che perdono popolazione da secoli, continueranno a farlo, mentre le grandi città, e soprattutto le fasce intermedie urbanizzate tra città e campagna, continueranno ad attrarre popolazione. In ogni caso, che si tratti di crescita tumultuosa della popolazione delle aree urbane, o di spopolamento nelle aree rurali, ad entrare in crisi sono i sistemi di welfare ed i diritti di cittadinanza ad essi collegati.
Inoltre non si tratta solo di uno spostamento di popolazione dalla campagna alla città, ma anche all’interno delle città ci sono interi quartieri che vengono abbandonati. Oggi in molti paesi occidentali si assiste a fenomeni clamorosi di deurbanizzazione (Detroit, ad esempio, e ad altre metropoli americane), che si portano dietro un decadimento, in questo caso soprattutto qualitativo, del welfare. Bisogna, ancora una volta, fare attenzione a non cadere in trappole ideologiche: basta interrogare internet per trovare un gran numero di ricercatori ed opinionisti pronti a giurare che il futuro dell’umanità si gioca nell’alternativa apocalittica fra i “troppi” o i “troppo pochi”, che è solo nell’ambiente meticcio delle città che nascerà l’economia del prossimo secolo, o, all’opposto, che siamo destinati ad un ritorno inesorabile alla produzione agricola.
La riflessione sugli squilibri territoriali, come ambito più corretto nel quale esercitare attività di studio e politiche volte a trovare soluzioni praticabili ad una crescita della popolazione che si distribuisce in maniera così squilibrata, ha spinto negli ultimi anni urbanisti, sociologi, policy makers, attivisti e “contestatori del sistema” a cercare altre strade di conoscenza e di intervento, nel tentativo di uscire dal vicolo cieco nel quale sembra spingerli la sola analisi dei grandi numeri, e neutralizzare il senso di impotenza identificando percorsi di rottura, di messa radicalmente in discussione di un sentiero all’apparenza già tracciato.
Molti, tra cui lo stesso Sinclair, i sono messi letteralmente in cammino, in lungo e largo per i territori, per disegnare nuovi sentieri di conoscenza, alla ricerca di sguardi diversi. Gli ecologi li chiamano foot transect, percorsi a piedi che permettono di ottenere informazioni difficilmente misurabili e altrimenti elusive. Il ricercatore si muove a piedi e mentre cammina registra ciò che vede. Gli incontri fortuiti lungo il tragitto del transect sono parte integrante di questo metodo i ricerca. L’obiettivo è quello di produrre la metis, una conoscenza di prima mano, attraverso l’esperienza. Per altro, la sensazione che può essere utile rallentare è nello spirito dei tempi, e ha prodotto negli ultimi anni una rete di sentieri che sono disegnati sull’esigenza di riappropriazione dei luoghi, di un’interpretazione dello spazio che ci circonda come mutamento continuo.
Percorrere lentamente, a piedi o in bici, il riscoperto Cammino di Santiago, o i percorsi esperienziali intorno al Grande raccordo Anulare di Roma sperimentato dal gruppo di architetti stalker o alla M25 di Sinclair a Londra, oggi diventa non solo un percorso di conoscenza, di mappatura in cui chi cammina e i luoghi che attraversa si determinano e ridefiniscono in un rapporto di reciprocità, ma anche una pratica di “destabilizzazione” di questa lettura dicotomica e alternativa, nelle prospettive di aree che si sentono condannate al declino, e di altre che sono indicate come le uniche depositarie del futuro dell’umanità. E quando il camminare diventa strumento di riappropriazione di questi spazi, per i singoli, e di ripensamento politico della loro gestione, per chi si occupa di politiche pubbliche, appare chiaro che il futuro dell’umanità non sia solo nelle megalopoli, come sembra sostenere la letteratura scientifica che va per la maggiore, ma in un riequilibrio delle funzioni sociali del tessuto umano dell’intero continente.
Tra le varie esperienze di ripensamento di politiche pubbliche, quella e della conoscenza diretta e della destabilizzazione degli equilibri consolidati è la strada che prova a percorrere in Italia anche la Strategia Nazionale delle Aree Interne, una politica sperimentale che ha lo specifico obiettivo di ridurre quegli squilibri demografici territoriali che rendono i cittadini dei paesi occidentali, costituzionalmente uguali, diversi per accesso ai servizi di cittadinanza e opportunità di crescita.
I ricercatori e policy makers impegnati nella Strategia, nel corso degli ultimi due anni, hanno percorso a bordo di pulmini e mezzi pubblici oltre cinquantamila chilometri nelle aree più remote del paese, hanno parlato con medici, preti, imprenditori, studenti, sindaci, agricoltori hanno fatto esperienza diretta e visto con i loro occhi ciascuno dei territori nei quali operano, hanno imparato a leggerne il paesaggio, a verificare puntualmente li dove c’è corrispondenza tra un dato statistico e dove no.
Nella convinzione che per interrompere la sensazione dell’ineluttabilità del declino sia necessario guardare non solo ai bisogni ma soprattutto ai desideri dei giovani, fanno del loro meglio per rimuovere gli ostacoli che impediscono che i soggetti più attivi possano proporre nuove letture del territorio, e nuove ragioni per abitarlo. E hanno camminato insieme ai cittadini discutendo con loro il passato, il presente, e il futuro dei luoghi attraversati nel tentativo di individuare le maniere più idonee per combattere i trend di spopolamento delle aree meno servite del paese.
Oggi camminare attraverso l’Europa, un continente dove gli ambienti primordiali sono ormai del tutto spariti, significa attraversare un ambiente fortemente antropizzato, nel quale si alternano vuoti che sono stati pieni e pieni, che fino a non molto tempo fa erano vuoti. E cogliere le forme antitetiche e complementari fra gli spazi e fra la modalità di viverli.
Di fronte ad una rarefazione umana ed produttiva nelle aree spopolate, abbiamo un intensificarsi e standardizzarsi delle relazioni commerciali in quelle che si ripopolano, nelle quali però sembrano restringersi gli spazi di autonomia e di sperimentazione dei singoli, a fronte all’apertura di nuovi orizzonti per i pionieri che decidono di restare o di stabilirsi nelle aree remote.
La lotta per le risorse si fa durissima nelle aree ad alta densità abitativa, dove aumentano le diseguaglianze, mentre si allarga la fetta di torta per chi rimane sui territori bassamente popolati, nei quali però le difficoltà ad accedere all’economia della conoscenza ipoteca le opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita, e spinge i cittadini all’abbandono.
Attraversare l’Europa a piedi, oggi, quando lo si può fare con voli a bassissimo prezzo, significa scegliere di riappropriarsi dei propri spazi, e di comprendere quanto l’alternativa apocalittica fra “formicai” e deserti sia una mistificazione che ci rende cittadini incapaci di prendere in mano il proprio futuro.
l’articolo originale è uscito per cheFare il 26 luglio 2016 e si può vedere qui