Una riflessione sulla necessità politica e culturale di imparare a prendersi cura della propria malattia attraverso la costruzione di una nuova narrazione.
Prendersi cura di una “brutta” malattia, saperla conoscere e raccontare, è il processo che la rende un accadimento reale e non estetico e demoniaco. Creare una narrazione infatti, consente di inserire la malattia nello spazio del reale composto dalla trama delle relazioni del mondo dei vivi: la narrazione quindi dà la possibilità di inserire la malattia tra sé e gli altri, diventando spazio di relazione possibile anziché luogo in cui il sé subisce una menomazione e quindi una negazione.
Da questa consapevolezza si sono diffusi spazi di discussione e condivisione, prevalentemente online, che puntano a riattivare l’intelligenza collettiva, a render protagonisti tutti coloro che ci riflettono – al di fuori delle gerarchie e degli schemi medicali – nella convinzione che pescando nel brodo umano della rete si possano trovare risorse nuove da attivare e mettere a servizio della medicina o, di più, attingendo a giacimenti di cultura inesplorati che ci possono aiutare a viver meglio e a comprendere con più consapevolezza la nostra condizione umana in cui siamo immersi.
Anche io mi son trovato imbrigliato in questa situazione. Sbalzato da un giorno all’altro da una condizione di salute a una di malattia: ho sperimentato i meccanismi segreganti della condizione di malato, di una malattia negata, che non si nomina nemmeno, dentro e fuori dagli ospedali.
Sentivo invece forte la necessità – io che faccio il ricercatore e mi occupo di significati, e altro non so fare – di trovare una nuova espressione: trovare le parole, le immagini, le visioni per uscire da una reclusione lessicale e fisica in cui ti trovi incastrato, costretto dentro a un meccanismo medico che si appropria del tuo corpo in quanto malato. Avevo bisogno di trovare un antidoto semantico a questa dimensione prodotta da un dispositivo che trasforma una persona in un numero, in un caso di studio, in un fattore di produzione nella macchina del welfare di massa. Non è un discorso ideologico: la lotta medica a certe malattie è lotta contro se stessi, i farmaci antiepilettici privano di autonomia di pensiero, limitano gli spostamenti, l’ospedale determina gli orari, e lo fa con la coercizione e con il consenso del paziente e delle persone che gli sono più vicine. Un consenso orientato dalla paura degli effetti dei farmaci, delle umiliazioni fisiche e anche di un’immagine demoniaca, mostruosa, aliena della malattia.
Ho pensato di offrire la mia esperienza per contribuire a coltivare una riflessione critica sulla condizione di malato e sulle possibilità di cura praticabili: ho provato in qualche modo a usare il mio corpo come laboratorio aperto in uno spazio web e, attraverso un diario che raccoglie documentazioni mediche e personali, ho invitato chiunque a fare delle riflessioni. Ogni persona è stata invitata a contribuire alla costruzione di questo percorso trovando le parole e le immagini che sento mancare quando cerco di dare una rappresentazione di questa esperienza e delle condizioni che la caratterizzano. Uno spazio condiviso per cercare quindi di dare forma ad un racconto nuovo: filmando, disegnando, intervistando, rimontando, rielaborando la mia cartella clinica, le risonanze, le foto e video fatti da me e da chi mi è vicino, attraverso i contributi che via via arrivano. Anche facendoci della musica. Si tratta di un percorso conoscitivo e creativo per ragionare su parole e significati, sul senso e sulla percezione della malattia indicibile.
Fa male, ma sento che scavare nel dolore equivale a trasformare la paura in una risorsa e così le risorse in cultura. Per poter proporre una nuova lettura più umana della malattia. Perché la malattia è una cosa di tutti noi, di tutti i giorni: non deve separarci e allontanarci dal mondo, ma è una opportunità per unirci, e anzi riportarci nel mondo.
Riappropriamocene attraverso una nuova narrazione.
Lo scorso fine settimana sono usciti due articoli negli inserti culturali de Il sole 24ore e di pagina99 sull’immaginario legato ai tumori e sull’autonarrazione che ne fanno i malati in rete.
La coincidenza con le mie riflessioni non è un evento straordinario e, proprio questi giorni, pensavo a Robert Macfarlane e al fatto che “le idee, come le onde hanno un’area di generazione, ci raggiungono insieme dopo aver percorso vaste distanze, e il loro passato è spesso invisibile o a malapena immaginabile”. Insomma l’originalità è un evento veramente straordinario, tutto quello che pensiamo è già nell’aria, come quando si decide di dare un nome poco comune o non più usato, per motivi del tutto personali, ad una bambina e, un anno dopo, al parco, senti chiamare altre mille bambine con lo stesso nome: “Anita”, come se persone sconosciute fossero state bagnate dalla stessa onda, nello stesso momento.
Nella mia permanenza in ospedale, ho letto un po’ di materiale: poesie, racconti, diari, scritti da malati oncologici e conservati in maniera caritatevole nella piccola biblioteca dell’ospedale, gestita da volontari. Sarà la tradizione cristiana, ma nella percezione popolare che emerge da quegli scritti e che corrisponde alla sua immagine riflessa dei media, il cancro assomiglia terribilmente al Diavolo: penetra nel corpo come il demonio dotato di volontà di corruzione, infiltra l’anima, si nasconde scaltro e sfugge allo sguardo del ricercatore colpendo con determinazione beffarda. L’uomo, debole come di fronte al peccato, non può che tentare di resistergli, anzi resistergli è suo dovere morale, religioso. Le parole e le affermazioni recitano “martirio”, “via crucis”, “finirà per soccombere”, “riposerà finalmente in pace”, e “in area di santità ascenderà vittorioso in paradiso”, che è quello che, in fin dei conti, conta. Tutti sapremo da cosa è stato sconfitto ma nessuno oserà pronunciarne il nome, proprio come TU-SAI-CHI di Harry Potter (“dopo una lunga malattia…. un male incurabile….”). È un mostro, ma un mostro che, ricorda Olivander, un venditore di bacchette magiche a Diagon Alley, ha fatto “grandi cose terribili, è vero, ma pur sempre grandi.”
Qualcosa sta cambiando, e non è sempre così: il linguaggio medico scientifico sta trasformando questa narrazione; ma proprio se si vuol dare un’immagine antropomorfa, il tumore, dicono alcuni, assomiglia più ad un grumo di cellule primitive, tontolone, ma terribilmente resistenti. Come i mostri di Maurice Sendak, o anche i cacciatori che popolano il bar davanti casa mia sul lago, che urlano tutto il giorno, non si sa di che vivono, hanno gli sguardi vacui all’apparenza privi di coscienza, sono timidi come divinità boschive ma sempre pronti a scatti di violenza; non hanno motivo di fare danno, ma lo fanno solo per il fatto di esistere e non solo agli altri: anche a se stessi. Insomma, un cancro sociale, ostacolo all’evoluzione culturale del paese, che ci trasciniamo elettoralmente almeno dai tempi del fascismo, e poi del berlusconismo. Ma ciò non toglie che la narrazione cristiana sia ancora prevalente, sottotraccia, come il persistere del “meme” del cancro, l’unità base del codice genetico della cultura.
Ma un motivo per il quale è così difficile trovare una nuova narrazione c’è ed è legato al fatto che come ogni narrazione tradizionale, anche questa è utile a qualcuno: è utile a un mondo di sacerdoti, di principi, di medici taumaturgi, anche di truffatori che abitano i templi della cura, ovvero i luoghi in cui chi è malato deve affidare ogni parte di sé trovandosi a vivere tra le righe di questa narrazione su cui finisce per muoversi una grande quantità di denaro. Ma anche i meccanismi istituzionali pubblici e privati la propagano: soprattutto quelli che tendono ad identificare il paziente in barella in un indistinto barellato, quello che non cammina con la carrozzella, il malato con la malattia.
Sento disperante questa perdita di autonomia. Per sfuggire a questo meccanismo, credo che riappropriarsi dei nostri mali sia necessario: impariamo a decidere per e di noi, ma non facciamolo da soli. Ricordiamoci quali miracoli hanno fatto 20 anni di governi di tecnici ed esperti in questo paese. Mi viene in mente una frase, letta su un muro della stazione SMN di Firenze, e mai dimenticata, dove spicca un “meglio in pericolo che esperti”. Ecco senza esagerare, è il momento di rischiare.
Articolo uscito su Il lavoro culturale il 29 maggio 2014 e visibile qui